Documentare, mescolare, trasformare…

Già dal loro primo spettacolo nel 2007, La strada di Pacha, Gigi Gherzi e Pietro Floridia ci hanno resi protagonisti dei loro diari di bordo. Possiamo chiamarlo così o report o documentario, poco importa, quello che ci interessa è soprattutto il senso di un'operazione che non presta affatto attenzione ai generi e alle etichette se non a proprio e nostro uso e consumo. Report dalla città fragile amplifica l'esperimento iniziale di La strada di Pacha, nato dalle interviste fatte nel barrios di Managua, utilizzando il materiale d'inchiesta, questa volta le interviste agli ex pazienti psichiatrici del Paolo Pini nonché i precari e gli altri onesti cittadini di Milano, per farne il reperto mobile di un'esperienza in grado di mescolarsi e moltiplicarsi.

Il desiderio politico che l'atto teatrale si traduca nella realtà in un'eco pervasiva, in grado di agire concretamente e modificare le vite di chi lo osserva, Gigi lo porta direttamente sul palco e ne fa il fulcro della sua ricerca. Se questo è lo scopo allora documentare può significare un po' tutto. Fotografie, racconti, filmati, oggetti e oggettini si sovrappongono come flash, diventano le tracce di un passaggio, ci informano con la loro stessa presenza, il tutto raccolto in atmosfere museali e sognanti, in parte debitrici delle belle opere di Antonio Catalano, terreni di evocazione e vicinanza. E poi ci siamo noi, i corpi vivi sul palco che ci formiamo in uno spettacolo che è una continua replica, per definizione sempre diversa. Documentare a teatro è impossibile, sembrano dirci il regista e l'attore-autore, se non in termini creativi e, in fondo, potrebbe quasi farlo chiunque.
 
Il documento tuttavia, se ci fa sapere e ci insegna è solo il pretesto per l'incontro di una comunità che si interroga. Perché il bello, lo sappiamo, viene dopo. Salire sul palco per partecipare all'esame della raccolta rende immediatamente la realtà di quel racconto discutibile. La questione è semplice: se a teatro possiamo sederci sulla scena per farci protagonisti spezzando tutte le pareti e mettendo a nudo le nostre fragilità, forse potremo farlo anche in piazza.
 
La fiducia con cui Gigi, generazione '77, crede nell'efficacia di questo processo antico e, a tratti, un po' ingenuo è disarmante, al punto da renderci qua e là persino un po' invidiosi. Tutto questo, ai tempi della crisi, è ancora possibile? Questa, forse, è la domanda che più ossessivamente continua a tamburellare in noi, per l'intero spettacolo con una certa nostalgia…
 
Averne tentato l'indagine, tuttavia, crediamo resti nel nostro panorama un atto coraggioso, perché dietro, nonostante la distanza, insieme a un esperimento tecnicamente interessante permane un sentire essenziale, una domanda che comincia molto prima della forma e che ci chiama in causa: in mezzo a questa piazza, su questo palco fragile, tu, spettatore, dove sei seduto? l.c.